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GEN
2013
Casi Clinici

[CURE PALLIATIVE] L’errore nelle cure palliative (2008)


Introduzione
Chi si occupa delle cure di fine vita si trova spesso a interrogarsi sul significato da attribuire al termine cura. Per cure palliative o di fine vita intendiamo tutte quelle cure che non sono rivolte alla guarigione del paziente, laddove una guarigione non è più possibile. In questi termini operiamo una distinzione tra guarire e curare e sosteniamo la necessità di curare anche in assenza di guarigione. Ogni operatore che assiste un paziente che sta vivendo la fase conclusiva della propria vita è consapevole del fatto che questa rappresenta un’esperienza della persona estremamente complessa e ricca di significati che non possono essere riassunti nella semplice lettura organica. Concordiamo, pertanto, nel definire le cure palliative come cure della persona e non della malattia o dei sintomi, dando così al termine curare un significato più ampio di quello che applichiamo al termine guarire.
In questo modo diamo rilevanza all’esperienza che il paziente ha della propria malattia, e non solo alla malattia intesa come deficit o disfunzionalità organica. Ci capita spesso, però, di incontrare difficoltà quando cerchiamo di applicare al processo di cura definito in questi termini strumenti che siano professionalmente validi in termini di metodo e di verifica. Ciò che spesso accade è di trovarci a oscillare tra la scelta di un approccio tradizionale basato sulla replicabilità degli eventi a discapito dell’unicità della persona, o un approccio umanistico difficilmente verificabile. Tra la ricerca dei protocolli e la comprensione delle persone.
Una scelta di questo tipo diventa impossibile, oltre che poco utile quando non dannosa, nella misura in cui i suoi termini si escludono a vicenda. La confusione che ne deriva riguarda il ruolo che gli operatori possono giocare nei confronti della persona malata. Può capitare infatti di trovarsi ad assumere un ruolo da “esperti” che pone una distanza con il paziente, la sua esperienza e la sua complessità; oppure di entrare in una vicinanza empatica, difficile da gestire perdendo di vista il proprio ruolo professionale. Si vive, così, l’imbarazzo di dover scegliere se mantenere un approccio scientifico rinunciando alla complessità dell’esperienza o valorizzare quest’ultima sacrificando la professionalità del proprio agire.
Crediamo che sia possibile e necessario ridefinire il ruolo di chi si occupa delle cure palliative in maniera tale che scientificità e comprensione umana non siano due concezioni della cura che si escludono a vicenda.
In questo articolo abbiamo provato a seguire alcune domande che sono a nostro avviso imprescindibili per chi si occupa della cura dei malati terminali: che cosa significa prendersi cura della persona che sta vivendo la fase terminale della vita? Quali sono gli strumenti professionali di una cura globale? Quali gli strumenti di verifica? Cosa fa di un errore un errore?

Il metodo scientifico e le evidenze cliniche
L’epistemologia è quel ramo della filosofia che studia la conoscenza, la relazione che intercorre tra realtà e conoscenza e tra soggetto che conosce e oggetto che viene conosciuto. Ogni teoria deriva, in maniera implicita o esplicita, da un assunto epistemologico che ne delimita il metodo e gli strumenti (per un ulteriore approfondimento si rimanda al testo Antinomie epistemologiche di Sadi Marhaba). La medicina occidentale, e in particolare la medicina basata sull’evidenza, derivano da una concezione della cura fondata su un assunto epistemologico di tipo realista. Concezione secondo cui esiste una realtà oggettiva indipendente dall’osservatore e a cui è possibile accedere direttamente. La conoscenza diventa in questi termini copia del reale, reale che si impone al soggetto che lo osserva e di fronte a cui l’osservatore è passivo.
Una concezione della medicina basata su questo presupposto canalizza la definizione degli strumenti e dei metodi della cura. La malattia è definita come dato oggettivo e diviene l’oggetto di studio della medicina. La ricerca si sviluppa attraverso l’emergere di evidenze cliniche che proprio in quanto evidenze impongono la propria oggettività. Lo strumento elettivo è il protocollo. In questi termini è un parametro esterno e oggettivo, l’evidenza clinica o il protocollo, a definire che cos’è un errore. Da questa definizione ne deriva che la relazione tra operatore e paziente assume i termini di un confronto tra un esperto che conosce la realtà e che ha gli strumenti per accedervi e un paziente che la ignora.
A questo corpus teorico viene tradizionalmente attribuito carattere di scientificità, contrapponendolo a una comprensione umana basata sul senso comune, difficilmente verificabile e per questo poco scientifica.
Tale definizione è sicuramente valida e fornisce strumenti utili anche alla cura dei pazienti nella fase conclusiva della loro vita. Tuttavia tale approccio non può essere sufficiente ed esaustivo per portare avanti il processo di cura così come è stato precedentemente definito.

Il presupposto costruttivista ermeneutico e la medicina narrativa
È possibile prendere in considerazione un’altra concezione di malattia, una concezione che parte da un assunto epistemologico diverso, un assunto costruttivista. Secondo tale presupposto la realtà esiste ma non possiamo accedervi se non attraverso le nostre personali costruzioni, il nostro modo di dare senso agli eventi. La conoscenza diventa in questi termini un atto creativo, una costruzione di significato.
Una concezione della cura basata su questo presupposto vede nella malattia principalmente un’esperienza della persona (H.G. Gadamer descrive l’esperienza della malattia come “una caduta, un’estromissione dalla rete di relazioni, entro la quale si svolge la vita”) e nella diagnosi un processo di costruzione in cui un professionista attivamente seleziona alcuni elementi (sintomi, valori biochimici ecc.) e a questi attribuisce un significato (Byron Good).
Con ciò non si vuole sostenere che ogni attribuzione di significato sia valida come qualsiasi altra. Infatti, ogni teoria si sviluppa attraverso la costruzione di ricorsività, attraverso la definizione di somiglianze tra alcuni eventi e la distinzione di questi da altri. Pertanto, una simile concezione della malattia non esclude la possibilità di utilizzare strumenti come i protocolli, né ci impedisce di basarci sulle “evidenze cliniche”, ma vede nei protocolli e nelle evidenze il modo in cui scegliamo di rapportarci alla malattia e alla persona malata. Crediamo che questa concezione della malattia e della cura fornisca strumenti particolarmente utili per chi assiste i malati con prognosi infausta.

Definizione di errore secondo un’ottica costruttivista ermeneutica
Partendo da questa prospettiva non ci è possibile definire l’errore sulla base di un parametro esterno e oggettivabile, non possiamo riferirci alla mancata aderenza a un protocollo, né all’inefficacia di un intervento clinico o diagnostico.
Abbiamo provato a dare una definizione di errore che fosse coerente con i presupposti del costruttivismo e dell’ermeneutica (M.L. Nuzzo definisce l’errore in ambito psicoterapeutico come un intervento che non dà il risultato atteso dove non è possibile reinserire tale risultato nella relazione terapeutica) indicando, pertanto, errore un’azione, interpretabile in termini clinici, assistenziali o psicologici, che produce un risultato diverso da quello anticipato laddove non riusciamo a utilizzare tale risultato come una risorsa da reinserire nel processo di cura.
A nostro avviso, in tale definizione sono impliciti alcuni dei cardini delle cure palliative che proviamo ad argomentare dividendoli in tre punti strettamente interrelati tra loro: l’équipe come unità nella cura della persona, il progetto terapeutico, la relazione tra operatori e paziente.

La cura come lavoro di équipe
Abbiamo definito l’errore come un’azione interpretabile in termini clinici assistenziali o psicologici per sottolineare come la cura di un paziente nella fase conclusiva della propria vita sia un processo che coinvolge la persona in termini globali. Quando soffre, il paziente non ci esprime la componente somatica del dolore piuttosto che quella psichica, semplicemente comunica la propria sofferenza. Le distinzioni tra psichico, somatico, cognitivo, emotivo ecc. sono distinzioni che noi operatori scegliamo di utilizzare come una sorta di mappa che orienta il nostro agire. I nostri interventi non sono scindibili in componenti cliniche assistenziali o psicologiche, ma piuttosto è la lettura che scegliamo di dare al nostro operato che definisce tali differenze (Bannister e Fransella definiscono alternativismo costruttivo il principio secondo cui è sempre possibile costruire letture diverse di uno stesso evento). A nostro avviso, pertanto, la cura di un paziente morente non può che avvenire attraverso un lavoro di équipe in cui figure professionali diverse forniscono letture diverse di una stessa unità (Maturana e Varela definiscono la persona e più in generale i sistemi viventi come unità autopoietiche per sottolineare il carattere di unicità del sistema e la possibilità di “prodursi continuamente da soli”), la persona malata appunto. Il lavoro di équipe, e pertanto le dinamiche che legano gli operatori di un certo gruppo di lavoro, rappresenta il terreno da cui il progetto di cura prende forma, potenziandone le possibilità in alcuni casi, amplificandone i vincoli in altri.

Il progetto terapeutico
Definendo l’errore un’azione che non dà il risultato anticipato, poniamo al centro del nostro operare l’anticipazione. Riteniamo, infatti, che le scelte che operiamo nel nostro agire professionale siano canalizzate dagli scenari che ci prefiguriamo rispetto al processo della cura (il postulato fondamentale della teoria dei costrutti personali di Kelly recita: i processi di una persona sono psicologicamente canalizzati dal modo in cui questa anticipa gli eventi). Quando, ad esempio, scegliamo di utilizzare un certo farmaco, di fare una medicazione, ma anche di comunicare con il paziente in un certo modo, lo facciamo anticipando che quell’intervento possa avere una qualche utilità nella cura del paziente. Crediamo che, affinché il nostro agire abbia una consistenza in termini professionali, una validità scientifica e sia verificabile, sia necessario rendere esplicite le nostre anticipazioni. Tali anticipazioni assumono la forma di ipotesi che vanno a costituire il tessuto del nostro progetto terapeutico definendo, così, le percorribilità della cura.
Il progetto terapeutico, nel suo complesso, deve avere una coerenza interna. È necessario, cioè, che le ipotesi che formuliamo non si escludano a vicenda. Se consideriamo che il lavoro nelle cure palliative non è svolto da un singolo ma da un’équipe, è necessario che le ipotesi dei singoli operatori siano coerenti tra loro. Bisogna inoltre aggiungere che, all’interno di un progetto, ipotesi più ampie contengono ipotesi più circoscritte. Nelle cure palliative l’ipotesi che ci troviamo di fronte a un paziente con una malattia a prognosi infausta e che non abbiamo strumenti per intervenire sulla durata della vita è sufficientemente ampia da poter includere le ipotesi successive. Ne deriva che ogni nostro intervento sarà orientato alla qualità della vita e non alla durata, al come piuttosto che al quanto. In questi termini, per progetto terapeutico non intendiamo una lista di azioni da eseguire come risposte a possibili sintomi fisici, ma piuttosto l’esplicitazione del senso che guida il nostro agire. All’interno di un progetto terapeutico possiamo formulare ipotesi sui sintomi fisici, sulla malattia, sull’esperienza del paziente, sulla comprensione che ne abbiamo ecc., ipotesi che attraverso le nostre azioni sottoponiamo a verifica. Riteniamo valida un’ipotesi finché ci permette di anticipare gli eventi (Lakatos definisce progressivo un programma di ricerca che permette di predire eventi nuovi).
Riteniamo, inoltre, che non sia sufficiente che una nostra azione non dia il risultato atteso per poter affermare che ci troviamo di fronte a un errore, ma è necessario che ci troviamo nell’impossibilità di reinserire quel risultato nel processo di cura.
In termini generali supponiamo che un paziente si presenti dal medico comunicando un certo sintomo, che il medico si spieghi quel sintomo come la manifestazione di una certa patologia, per verificare la quale sia necessario un esame diagnostico. Supponiamo infine che il risultato di quell’esame non confermi l’ipotesi del medico. Non è sufficiente questo per poter parlare di errore. Ci troveremmo di fronte a un errore se, ad esempio, nell’impossibilità di formulare una nuova ipotesi, quel medico scegliesse di prescrivere una serie di accertamenti diagnostici procedendo più per prove ed errore che sotto la guida di una nuova ipotesi. Non ci troviamo di fronte a un errore se il nostro agire è guidato da un’ipotesi coerente con il progetto terapeutico e se il risultato che otteniamo, laddove la nostra ipotesi venga invalidata, ci permette di formulare una nuova ipotesi e un nuovo possibile intervento. Come dicevamo, nelle cure palliative il progetto terapeutico è orientato necessariamente alla qualità della vita e non alla sua durata. Se riprendiamo l’esempio precedente ci troveremmo di fronte a un errore anche se l’esame diagnostico prescritto dal medico fornisse un risultato positivo qualora quell’esame fosse invasivo o non aggiungesse elementi utili alla cura del paziente.
Secondo questa definizione la cura del paziente si sviluppa attraverso un percorso circolare e ricorsivo, in cui le verifiche delle nostre ipotesi diventano gli elementi su cui formulare ipotesi nuove. Ci troviamo di fronte a un errore quando questo percorso diventa ripetitivo, quando cioè non riusciamo più a formulare ipotesi che diano una percorribilità alla cura.

La relazione tra operatori e paziente
Partendo dai nostri presupposti, è possibile considerare le narrazioni riportate dai pazienti sulla propria esperienza come possibili spiegazioni sulla malattia, così come le letture e le interpretazioni di noi operatori possono ritenersi alcune tra le possibili. Con questo non si vuole affermare che le narrazioni fornite dai vari professionisti siano interscambiabili con quelle fornite dai pazienti, ma piuttosto si definisce la peculiarità della relazione che lega paziente e operatori. Infatti, le narrazioni dei pazienti rispetto alla propria esperienza di malato e le spiegazioni professionali fornite dagli operatori tracciano trame narrative con un diverso campo di pertinenza: l’esperienza personale da un lato, gli strumenti della cura dall’altro. In questi termini la relazione che lega la persona malata a chi si prende cura di lei si sviluppa attraverso il rispetto di tale differenza. Perdere di vista questa differenza, quando si cura una persona, può portarci a due ordini di problemi: può accadere, da un lato, di accanirsi affinché il paziente accetti le scelte cliniche e convenga con noi che siano le più utili per lui, applicando all’esperienza personale del paziente le nostre spiegazioni professionali; dall’altro, rifacendosi a un’idea generale di “rispetto”, è possibile trovarsi a delegare al paziente o ai familiari scelte che competono gli operatori, come ad esempio la comunicazione di una prognosi o la sospensione di una terapia.
Per ogni operatore che si pone in quest’ottica, la cura diventa un processo che prende forma attraverso la relazione con il paziente, relazione in cui gli attori, pur avendo pari dignità, giocano ruoli differenti. Riteniamo che ogni errore nel processo di cura possa essere, in qualche modo, riconducibile alla perdita di tale differenza, e pertanto trovi una sua possibile spiegazione in ciò che accade all’interno della relazione tra operatore e paziente.

Una lettura psicologica: presentazione del caso di Marta
Marta e il marito Giorgio a domicilio. Mi viene presentato brevemente un quadro complesso di difficile gestione a casa per l’atteggiamento “provocatorio” di Giorgio. Il ricovero in Hospice viene suggerito più per far fronte a queste difficoltà che per le condizioni cliniche di Marta, che pur essendo affetta da una patologia neoplastica con prognosi infausta ha un’aspettativa di vita ancora a medio-lungo termine. Il nucleo familiare viene presentato come “litigioso all’interno della coppia” e con “atteggiamenti di sfida” nei confronti degli operatori. Ho il primo colloquio con Giorgio prima del ricovero di Marta in Hospice. Contrariamente alle mie aspettative, mi appare un ometto piccolo, pacato, forse eccessivamente disponibile. Nel colloquio Giorgio mostra di essere a conoscenza delle condizioni cliniche della moglie. Nonostante ciò da subito avverto una stonatura nel suo atteggiamento che mi mette in difficoltà. Dopo poco ho il primo contatto con Marta. Appare pacata, con un atteggiamento che potremmo definire depressivo, parla con un filo di voce e manifesta un vissuto di colpa e inadeguatezza per tutto ciò che non è più in grado di fare. Nei colloqui che ho avuto successivamente con Giorgio alcuni elementi si presentano ricorrenti. Egli manifesta la propria consapevolezza della malattia di Marta, ma di fronte a questa si accanisce a cercare soluzioni nel tentativo di far guarire la moglie. “Non mi arrendo alla morte”, ripete con enfasi. Quando si trova di fronte all’impossibilità di raggiungere il suo obiettivo, sposta il discorso su di sé raccontandomi una serie di episodi spesso incoerenti e contraddittori in cui è difficile seguire il filo narrativo, persone e luoghi si confondono e date ed eventi si sovrappongono. Racconta di essere un avvocato e mi parla di genitori amorevoli che ha perso da piccolo (il suo livello culturale sembra piuttosto basso e mi pare di intuire che sia cresciuto in orfanotrofio, in quanto abbandonato alla nascita). Anche con Marta ho avuto qualche colloquio e anche con lei ho incontrato delle difficoltà. Mi presenta una sensazione di inadeguatezza per non riuscire a camminare come vorrebbe o a fare le cose che ha sempre fatto, attribuisce la responsabilità di questo alla propria incapacità e mancanza di impegno piuttosto che alla malattia. Si lamenta delle pressioni che riceve dal marito, ma sembra non tollerare la sua assenza nemmeno per brevi momenti. La relazione tra i due si sviluppa così, tra l’accanimento di Giorgio e l’autocolpevolizzazione di Marta. L’atteggiamento nei confronti degli operatori sembra oscillare tra le richieste lamentose e le sfide provocatorie.

Costruzione professionale
Nel tentativo di formulare un’ipotesi su Marta e Giorgio provo a rileggere gli atteggiamenti di “sfida” e le lamentele non come provocazioni mirate a destabilizzare gli operatori dell’équipe, ma provando a cogliere il senso di ciò che i due mi presentano. La domanda che mi guida è: “Che cosa succederebbe a queste due persone se non facessero ciò che fanno?”. Ipotizzo che il problema di Giorgio non sia strettamente legato alla condizione attuale né all’esperienza che sta vivendo in questo momento, credo che nel corso della vita difficilmente abbia potuto sperimentare la propria rilevanza agli occhi degli altri. Nel racconto di Giorgio non sono presenti figure di riferimento che abbiano avuto una continuità, il suo racconto è confuso perché confusa è la sua esperienza. Sembra che per lui non ci sia stata la possibilità di costruire un senso di identità sufficientemente stabile e coerente da poter giocare nella relazione con gli altri, o ancora meglio possiamo ipotizzare che la costruzione di un senso di identità così poco definito sia ciò che gli ha permesso di trovare un adattamento nelle relazioni. Il comportamento oppositivo e provocatorio può essere letto, al tempo stesso, come ciò che gli permette di recuperare un ruolo nella relazione con gli altri e di tutelarsi da eventuali invalidazioni, come se gli fosse possibile dare una definizione di sé soltanto in contrapposizione alle aspettative degli altri. Credo che la relazione con Marta si giochi su questo, e mi sembra di capire che sia per Giorgio l’unica relazione che abbia avuto una continuità, seppure in questi termini. Da questo punto di vista la possibilità di perdere la moglie è per lui un’idea intollerabile dalla quale si difende ricorrendo all’allentamento del sistema di costrutti e ricostruendo un senso di sé “delirante”. Nella teoria dei costrutti personali di G. Kelly un costrutto (significato) lasso è un costrutto che conduce a previsioni variabili. Nel caso di Giorgio l’allentamento coinvolge il sé, riguarda cioè quei significati che permettono di mantenere un senso di identità stabile, che permettono, in altri termini, di definirsi identici a sé e diversi da altro (ad es. se sono un operaio non sono un avvocato; se mi sono sposato 15 anni fa non ero sposato 30 anni fa ecc.).
La relazione di Marta con Giorgio sembra basata principalmente su dimensioni di dipendenza (per G. Kelly un costrutto di dipendenza è un costrutto che associa una persona a un bisogno). In altri termini Marta sembra non avere una comprensione di ciò che sta accadendo al marito, non le è possibile leggere l’accanimento di Giorgio come l’espressione di un disagio che appartiene a lui, ma piuttosto lo vive come il risultato della propria inadeguatezza. Bisogna anche aggiungere che, in questa fase, Marta stava operando una costrizione (la costrizione è un processo che consiste nell’eliminazione di alcuni elementi dal proprio campo percettivo; nel caso di Marta tale processo riguarda quegli elementi che rappresentano per lei una minaccia) su quegli elementi che le rimandano l’inguaribilità quali la difficoltà a camminare, la stanchezza, la perdita di tono muscolare, rappresentino per lei la testimonianza di qualcosa di estremamente minaccioso (nella teoria dei costrutti personali di Kelly la minaccia viene definita come l’anticipazione di un imminente cambiamento ampio e invalidante nella struttura nucleare) che non può ancora considerare. Possiamo sostenere che in questo momento la possibilità di spiegarsi ciò che le sta accadendo nei termini di un’incapacità personale o di una mancanza di volontà, rappresenti una strada, sicuramente faticosa e dispendiosa in termini personali, ma per Marta più facilmente percorribile. Le pressioni di Giorgio diventano paradossalmente per lei una sorta di rassicurazione.
Non so come fosse la relazione tra Marta e Giorgio prima dell’insorgere della malattia, ma mi sembra opportuno sottolineare come l’atteggiamento “vittimistico” di Marta e i comportamenti “provocatori” di Giorgio possano rappresentare le due facce di una stessa medaglia: la passività e il vittimismo di Marta è ciò che permette a Giorgio di mantenere la propria identità nei termini della provocazione e della sfida; viceversa, l’atteggiamento oppositivo di Giorgio alimenta il vittimismo di Marta.

Ipotesi di intervento e processo di cura
Sulla base della mia ipotesi su Marta e Giorgio ho individuato alcune modalità che avrebbero potuto rendere difficile la relazione con i due, e pertanto il processo di cura. In primo luogo ho pensato che fosse necessario evitare di:

  • colludere con la posizione di “sfida” di Giorgio e instaurare una relazione con lui basata su un braccio di ferro;

  • assumere un atteggiamento passivo e impotente di fronte alle continue richieste (come faceva Marta);

  • forzare la consapevolezza di Marta sulla propria malattia, mettendola ancora di più in una posizione di chiusura;

  • schierarsi a sostegno di Marta nei momenti in cui Giorgio le faceva più pressioni affinché “reagisse”.

Rispetto a quest’ultimo punto, ho invitato più volte il personale a non leggere questi comportamenti di Giorgio come un sopruso del marito sulla moglie, ma come una modalità relazionale giocata da entrambi.
Ciò che avremmo potuto fare, per evitare di scivolare in una di queste posizioni e per portare avanti il processo di cura, può essere così riassunto:

  • rendere Marta il nostro interlocutore principale;

  • coinvolgere Giorgio nel processo di cura informandolo, ascoltandolo e riconoscendogli il suo ruolo di marito di Marta senza però delegare a lui le scelte nella cura della moglie;

  • strutturare gli interventi assistenziali (mobilizzazione della paziente, igiene, terapie ecc.) in maniera prevedibile e anticipabile per Marta e per Giorgio.

Per rendere attuabile questo tipo di intervento era necessaria, più che in altre situazioni, la definizione chiara di un progetto terapeutico e dei ruoli giocati da ciascun operatore.

Analisi dell’errore
Le lamentele di Marta e le continue richieste di Giorgio hanno messo a dura prova l’intera équipe. La sensazione degli operatori era quella di non riuscire a dare risposte adeguate, inoltre l’atteggiamento confuso di Giorgio rendeva difficile l’anticipazione dell’effetto che un certo intervento avrebbe potuto produrre. Nella cura di Marta ci siamo trovati nella difficoltà di portare avanti un piano condiviso. Nel corso del processo di cura le richieste di Giorgio sono diventate sempre più pressanti, richieste che vertevano principalmente sulla mobilizzazione della moglie. Questo comportamento ci ha portato, in alcuni momenti, a focalizzare l’attenzione più su di lui che su Marta, rendendo quest’ultima sempre più passiva.
Il nostro intervento è diventato a sua volta confuso. I singoli operatori si muovevano in maniera non coordinata con l’intervento degli altri, e all’interno dell’équipe si è presto sviluppata una dinamica simile a quella che proponeva la coppia. Da un lato alcuni di noi presentavano una sensazione di inadeguatezza e di impotenza, altri hanno assunto un atteggiamento colpevolizzante nei confronti dei colleghi.
La relazione con la paziente e il marito, perdendo il riconoscimento di quella differenza di ruoli di cui si è parlato sopra, ha assunto le forme di una contrattazione poco utile alla cura di Marta. Ci si è trovati, infatti, a oscillare tra il tentativo di assecondare ogni richiesta e la contrapposizione litigiosa.
I nostri interventi sono diventati ripetitivi nei termini che, impossibilitati a dare risposte efficaci, ci siamo trovati nella situazione di ripetere le stesse azioni (contrattazioni, tentativi di spiegazioni ecc.), pur consapevoli della loro inefficacia.
L’ennesima richiesta di mobilizzazione ha innescato un braccio di ferro tra Giorgio e l’operatore presente in servizio. Giorgio è diventato aggressivo e la coppia ha deciso di ricoverare Marta in un’altra struttura.

Conclusioni
Come sottolineavo, quello che è venuto meno nel lavoro con Marta e Giorgio è stata la costruzione di un processo condiviso tra gli operatori, condivisione che in una struttura come l’Hospice rappresenta il presupposto stesso del nostro operare. Infatti, chi si occupa di cure di fine vita si confronta con un’esperienza del paziente che non può essere riassunta semplicemente in una serie di scelte cliniche. Il lavoro di équipe diventa così confronto tra operatori che portano punti di vista differenti su una stessa unità.
Se definiamo la malattia e la terminalità un’esperienza della persona, la cura palliativa non può che prendere forma nella relazione con quella persona in quel momento. Il nostro obiettivo, pertanto, non è quello di applicare al paziente un protocollo, né quello di convincerlo ad agire come vorremmo che facesse, ma piuttosto di accompagnare il paziente e di costruire un processo di cura che tenga conto del modo in cui questo vive la propria esperienza di malato.
In questo modo la cura diventa l’incontro di due punti di vista, o se vogliamo di due narrazioni, quella del paziente e quella dell’operatore che con lui si confronta.

Bibliografia

  • Bannister D, Fransella F. L’uomo ricercatore: introduzione alla psicologia dei costrutti personali. Firenze: Martinelli 1986. Gadamer HS. Dove si nasconde la salute. Milano: Raffaello Cortina Editore 1994.

  • Good BJ. Narrare la malattia: lo sguardo antropologico sul rapporto medicopaziente. Torino: Einaudi 1999. Kelly GA. The psychology of personal constructs. New York: Norton 1955.

  • Lakatos I. La metodologia dei programmi di ricerca. Milano: Il Saggiatore 1985.

  • Marhaba S. Antinomie epistemologiche nella psicologia contemporanea. Firenze: Giunti 1976.

  • Maturana H, Varela F. L’albero della conoscenza: un nuovo meccanismo per spiegare le radici biologiche della conoscenza umana. Torino: Garzanti 1987.

  • Nuzzo ML. Intervento al dibattito su “L’errore in psicoterapia” organizzato dall’Associazione Italiana di Psicologia e Psicoterapia Costruttivista AIPPC (Firenze, 25 ottobre 2003).

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