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GEN
2013
Area Cardiovascolare

[Numero 15 - Articolo 1. Giugno 2007] Effetti a lungo termine della riduzione del sodio nella dieta sugli eventi cardiovascolari: follow-up osservazionale degli studi TOHP (prevenzione dell’ipertensione)


Titolo originale: Long term effects of dietary sodium reduction on cardiovascular disease outcomes: observational follow-up of the trials of hypertension prevention (TOHP)
Autori: Nancy R Cook, Jeffrey A Cutler, Eva Obarzanek, Julie E Buring, Kathryn M Rexrode, Shiriki K Kumanyika, Lawrence J Appel and Paul K Whelton
Rivista e Riferimenti di pubblicazione: BMJ 2007;334;885-; originally published online 20 Apr 2007
Recensione a cura di: Bruno Glaviano
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Lo Studio
La pressione arteriosa è uno dei fattori di rischio più importanti per l’insorgenza di eventi cardiovascolari. L’influenza dell’assunzione del sale da cucina (cloruro di sodio) sulla pressione arteriosa e sull’incidenza di ipertensione è ben stabilita. Alcuni studi clinici randomizzati controllati hanno già dimostrato come la riduzione moderata di assunzione di sale mostra una correlazione causa-effetto dose dipendente, senza effetto soglia, all’interno delle dosi di sale normalmente assunte dalla popolazione in tutto il mondo. Questo effetto è indipendente da età, sesso, origine etnica, pressione di base, indice di massa corporea. Esistono quindi ampi elementi per incoraggiare la riduzione di assunzione di sale per prevenire le malattie cardiovascolari, ma la mancanza di studi randomizzati, condotti su un adeguato numero di soggetti e per un tempo sufficientemente lungo, sugli effetti della riduzione di sale sugli eventi clinici ha addirittura incoraggiato alcuni a contrastare la politica di riduzione di consumo di sale nella popolazione. Gli autori hanno condotto uno studio osservazionale sulle malattie cardiovascolari, sui soggetti che avevano partecipato a due studi clinici (TOHP I e TOHP II) riguardanti l’efficacia degli interventi non farmacologici sulla pressione arteriosa, selezionando i soggetti ai quali era stata prescritta una riduzione dell’assunzione di cloruro di sodio per 18 mesi nel primo studio, e 36 nel secondo. I partecipanti ai gruppi di intervento avevano ridotto l’assunzione di cloruro di sodio del 25-30% circa (attualmente negli USA si raccomanda una riduzione del 50%). Gli effetti a lungo termine sono stati quindi studiati su un periodo di 10-15 anni, in soggetti di età compresa tra 30 e 54 anni all’arruolamento, con valori di pressione arteriosa ai limiti superiori della norma (pre-ipertensione) ma non in terapia farmacologica antipertensiva. Nel protocollo TOHP II i soggetti erano anche in sovrappeso. Dieci anni dopo il termine del primo studio, e cinque dopo il termine del secondo, i partecipanti sono stati nuovamente contattati per telefono e per posta, richiedendo informazioni dettagliate sui successivi eventi patologici, cardiovascolari e di altro genere. L’obiettivo principale era la malattia cardiovascolare, comprendente l’infarto miocardico, l’ictus, il by-pass aortocoronarico, l’angioplastica coronarica percutanea, o la morte per una malattia cardiovascolare. Le diagnosi sono state verificate dopo avere ottenuto il consenso per la consultazione delle cartelle cliniche, e sui registri di mortalità. È stato poi rivalutato l’atteggiamento nel confronto dei cibi salati o a basso contenuto di sodio, l’abitudine a leggere le etichette per contenuto di sodio, e la registrazione di un diario quotidiano dei milligrammi di sodio assunti. I partecipanti ai due studi, randomizzati per un programma di riduzione dell’assunzione di sale, erano rispettivamente 744 e 2382, con caratteristiche di base simili eccetto per l’età (maggiore nel gruppo intervento in tutti e due gli studi). Le variazioni di peso erano simili, mentre la differenza di escrezione di sodio era maggiore nei soggetti sottoposti al programma di intervento. Sono state ottenute informazioni sugli eventi cardiovascolari o morte per il 77% dei partecipanti, mentre i dati sulla mortalità totale sono stati confermati per tutti partecipanti.

 

I Risultati
La riduzione del rischio relativo per i soggetti assegnati a un programma di riduzione del sodio è risultata del 25%, dopo aver controllato i dati rispetto alla sede dello studio, alle variabili demografiche e all’assegnazione a un programma di riduzione del peso (per i partecipanti al secondo studio). I risultati sono stati simili anche analizzando separatamente i partecipanti ai due diversi studi. Gli effetti della riduzione del sodio sono stati simili anche stratificando i soggetti per sesso, gruppo etnico, età, indice di massa corporea. Dopo aver aggiustato i dati anche rispetto al peso e all’escrezione basale di sodio, il rischio relativo è risultato inferiore del 30%. La mortalità totale è risultata inferiore del 20% nel gruppo d’intervento di riduzione del sodio: 35 decessi contro 42 nel gruppo di controllo, di cui 10 (contro 15) per malattie cardiovascolari. Il questionario sull’uso del sodio dopo la fine degli studi è stato restituito dal 65% dei partecipanti sani, con una risposta maggiore (77% contro 66%) da parte dei soggetti sottoposti a intervento. Di questi, il 48% contro il 32% dei controlli riferivano di non apprezzare i cibi salati, il 71% contro 64% che apprezzavano i cibi con basso contenuto di sodio o insipidi, il 47% contro il 29% che usavano spesso o sempre prodotti a basso contenuto di sodio, il 66% contro il 44% cercavano l’informazione sul contenuto in sodio nelle etichette degli alimenti, mentre il 28% contro il 20% tenevano saltuariamente un diario giornaliero dell’assunzione del sodio.

 

Limiti dello studio
Gli autori riconoscono che il follow-up non è stato completo, ma considerano relativamente alto il 77% dei soggetti del quale è stata ricostruita la morbidità. Un altro limite è stato la mancanza di una misura diretta della pressione arteriosa, del peso e dell’assunzione del sodio a distanza, per cui bisogna accettare la conferma indiretta dal questionario degli effetti a lungo termine dell’intervento, ad esempio la maggiore aderenza alla dieta iposodica nel gruppo di intervento (questo è sostenuto anche dall’evidenza che la preferenza per i cibi salati si riduce circa tre mesi dopo l’inizio della restrizione dietetica, e che l’aderenza all’intervento persiste, anche se attenuata, almeno per un anno anche in assenza di sostegno continuo nel caso di modificazioni della dieta, e che quelle riguardanti il sodio possono essere più facili da mantenere). È stata contestata agli autori del lavoro l’assenza di informazioni sull’abitudine al fumo dei soggetti studiati. Questi hanno replicato che i dati pubblicati in occasione della presentazione dei due studi di intervento mostravano come la maggior parte dei soggetti studiati non aveva mai fumato, inoltre che questi studi di intervento erano corretti per i diversi fattori di confondimento, tra cui il fumo, nei confronti dei fattori di rischio cardiovascolari. Infine, non sono stati valutati i fattori genetici predisponenti alle malattie cardiovascolari, nè la sensibilità al sodio. Infatti, la restrizione sodica ha un effetto significativo sulla pressione arteriosa e sugli eventi cardiovascolari solo su alcuni soggetti, quindi sarebbe stato utile misurare la percentuale di soggetti nei quali questo si è verificato, e la relazione con i conseguenti eventi cardiaci.

 

Implicazioni per la pratica clinica
I risultati dello studio sostengono le raccomandazioni sulla riduzione dietetica del sodio come misura preventiva delle malattie cardiovascolari nella popolazione generale; dovrebbe inoltre eliminare ogni dubbio circa le preoccupazioni su possibili danni causati da una dieta iposodica. La riduzione del 50% del consumo di cloruro di sodio negli USA risparmierebbe 150.000 vite all’anno, con un risparmio di 20 trilioni di dollari in 20 anni. Il modo più semplice per attuare la restrizione sodica è la sostituzione dei cibi lavorati con cibi naturali, e evitare di aggiungere cloruro di sodio durante alla preparazione degli alimenti; se questo non è possibile bisogna sostituire completamente, o almeno al 50%, il cloruro di sodio con cloruro di potassio. È stato obbiettato come la reintegrazione idrosalina sia indispensabile in tutti quanti svolgono attività lavorativa in climi caldo-umidi, e quindi la restrizione sodica non sia applicabile a vaste fasce di popolazione; ma in realtà in questo caso è sufficiente ristabilire nell’organismo l’apporto idrico. Nel 1985, l’organizzazione mondiale della sanità ha raccomandato che il consumo medio quotidiano di sale dovrebbe essere ridotto a 5 g o meno. Poche nazioni hanno però implementato questi suggerimenti, ad esempio in Inghilterra e Galles il governo raccomanda un’assunzione massima di 6 g al giorno. Gli abitanti dei paesi più sviluppati assumono principalmente sale con il pane e cibo lavorato, e meno del 20% viene quindi scelto volontariamente. Quindi queste persone avranno una grande difficoltà nel cercare di ridurre l’assunzione di sale con la dieta, se non si farà in modo di consentire un’ampia disponibilità di cibo preparato a basso contenuto di cloruro di sodio. Già da molto tempo medici e professionisti della salute danno consigli dietetici sul trattamento non farmacologico dell’ipertensione, ma questi interventi all’interno di un affollato studio di Medicina Generale hanno un’efficacia molto limitata. Inoltre, la valutazione dell’assunzione di sale misurata con l’eliminazione di sodio nelle urine delle ventiquattr’ore non è compresa nei test diagnostici abituali. Il sistema corrente non è quindi in grado di consentire aimedici e ai consumatori di rendersi conto del loro consumo di sale e quindi di aumentare la motivazione e le conoscenze su come ridurlo. Con l’aumentare della domanda di salute e della spesa sanitari, un intervento di grande efficacia, semplice da attuare e molto economico viene quindi al momento trascurato.

 

Conclusioni del revisore
Questo studio fornisce un valido sostegno all’implementazione di programmi di prevenzione cardiovascolare non farmacologica a lungo termine, dimostrando come l’effetto della restrizione sodica persista nel tempo, riducendo la morbilità e mortalità anche a lungo termine, in questo caso anche più di dieci anni dopo il termine di un programma di intervento della durata di 18-36 mesi. Lo studio presenta però importanti limiti: in primo luogo si può sospettare che i soggetti sottoposti al programma di intervento siano stati più motivati nel controllare il proprio stato di salute anche con altre abitudini, come l’astensione dal fumo, l’attività fisica regolare, il controllo del peso. Questo dubbio sorge anche dalla considerazione che i due studi TOHP erano rivolti alla riduzione della pressione arteriosa con misure non famacologiche, ma questa è risultata essere modesta, -1,7 mmHg sistolica e –0,8 diastolica, tanto da indurre gli autori a trovare altre spiegazioni, ad esempio l’effetto diretto delle elevate concentrazioni di sodio sulla struttura cardiaca e vascolare, con aumento di fibrosi miocardica e di massa ventricolare sinistra.
Un’ultima considerazione deve infine essere fatta sulla fattibilità di un simile programma di prevenzione, solo a prima vista semplice e economico. Infatti, visto che l’80% circa del sale che assumiamo proviene dagli alimenti preparati, che la stessa FDA considera a tutt’oggi il cloruro di sodio “generalmente riconosciuto come sicuro” e che l’industria alimentare non ha finora risposto alle pressanti richieste di ridurre il contenuto in sale (ma anche in zuccheri, grassi e calorie in generale) nei propri prodotti, risulta evidente come la prevenzione cardiovascolare richieda un massiccio impegno di politica di sanità pubblica, dato che dipende anche da agricoltura, commercio, educazione, ambiente, struttura urbana e dei trasporti. Bisogna anche considerare che i cibi dietetici sono più costosi e quindi proporne l’acquisto al vasto pubblico può essere discutibile dal punto di vista etico. Un altro problema a livello mondiale sarebbe la difficoltà nel continuare la supplementazione iodica nelle popolazioni carenti, che viene implementata proprio con il sale da cucina. Si stima che il 70% delle famiglie in tutto il mondo utilizzavano sale iodato nel 2000, rispetto a meno del 20% nel 1990, e che almeno 85 milioni di neonati su 130 milioni di nascite annue in tutto il mondo sono protetti in questo modo dalla riduzione della capacità di apprendimento. Quindi anche in presenza di dati convincenti come quelli presentati in questo studio, il semplice consiglio dato ai propri pazienti in ambulatorio di “buttare via la saliera”, in assenza di proposte più pratiche e realizzabili, rischia di modificare solo marginalmente il livello di sale nella popolazione. Per questo motivo SIMG consiglia di fornire anche materiale scritto sulla lettura delle etichette (sarà disponibili nelle prossime versioni di Millewin)

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Ultimo aggiornamento di questa pagina: 20-ago-07
Articolo originariamente inserito il: 17-giu-07
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