08
GEN
2013
Area Cardiovascolare

[Numero 13 - Articolo 4. Aprile 2007] Terapia medica ottimizzata con o senza interventistica coronarica percutanea per la coronaropatia stabile


Titolo originale: Optimal Medical Therapy with or without PCI for Stable Coronary Disease
Autori: William E. Boden, M.D., Robert A. O’Rourke, M.D., Koon K. Teo, M.B., B.Ch., Ph.D., Pamela M. Hartigan, Ph.D., David J. Maron, M.D., William J. Kostuk, M.D., Merril Knudtson, M.D., Marcin Dada, M.D., Paul Casperson, Ph.D., Crystal L. Harris, Pharm.D., Bernard R. Chaitman, M.D., Leslee Shaw, Ph.D., Gilbert Gosselin, M.D., Shah Nawaz, M.D., Lawrence M. Title, M.D., Gerald Gau, M.D., Alvin S. Blaustein, M.D., David C. Booth, M.D., Eric R. Bates, M.D., John A. Spertus, M.D., M.P.H., Daniel S. Berman, M.D., G.B. John Mancini, M.D. and William S. Weintraub, M.D., for the COURAGE Trial Research Group*
Rivista e Riferimenti di pubblicazione: New Engl J Med. 2007 Apr 12;356(15):1503-16
Recensione a cura di: Gaetano D'Ambrosio
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Razionale
Il trattamento iniziale del paziente con cardiopatia ischemica cronica stabile si basa fondamentalmente su di un approccio non invasivo che comprende una terapia medica intensiva, la riduzione dei fattori di rischio ed un intervento sullo stile di vita. Negli ultimi 30 anni si è sempre più diffusa l’abitudine di ricorrere, oltre al trattamento non invasivo, alla interventistica coronarica percutanea (angioplastica e stenting) nonostante che questo approccio non sia fondato su di una solida evidenza scientifica. Se, infatti, vi sono prove che l’interventistica coronarica riduce la mortalità e l’incidenza di infarto nei soggetti con sindrome coronarica acuta, non è affatto provato che analoghi benefici possano essere ottenuti nei soggetti con cardiopatia ischemica cronica.
Per colmare questa lacuna è stato condotto uno studio clinico randomizzato e controllato finalizzato a verificare se le procedure di interventistica coronarica, effettuate in aggiunta alla terapia medica ottimizzata, comportano un reale vantaggio, in termini di mortalità globale e di incidenza di infarto non fatale, rispetto alla terapia medica da sola nel trattamento iniziale del paziente con coronaropatia stabile.

 

Metodo
Sono stati arruolati pazienti con cardiopatia ischemica cronica documentata angiograficamente. Sono stati esclusi i pazienti con: sintomatologia anginosa severa (a riposo o al minimo sforzo, corrispondente alla quarta classe della classificazione della Canadian Cardiovascular Society - vedi tabella in calce); test da sforzo marcatamente positivo; scompenso cardiaco refrattario o shock cardiogeno; frazione di eiezione < 30%; intervento di rivascolarizzazione miocardica effettuato nel corso dei sei mesi precedenti l’arruolamento. Dopo la coronarografia, i pazienti sono stati randomizzati in due gruppi e sottoposti alla sola terapia medica ottimizzata (gruppo di controllo) o alla terapia medica più intervento di rivascolarizzazione coronarica per via percutanea (gruppo di intervento). La terapia medica includeva metoprololo a lunga durata di azione, amlodipina ed isosorbide mononitrato, da soli o in associazione, oltre a lisinopril o losartan a scopo di prevenzione secondaria. Tutti i pazienti venivano sottoposti a terapia ipocolesterolemizzante aggressiva con simvastatina da sola o in associazione con ezetimibe con l’obiettivo di portare le LDL ad un livello compreso tra 60 e 85 mg/dl. Dopo aver portato le LDL a target veniva effettuato un tentativo di aumentare le HDL e ridurre i trigliceridi per mezzo di esercizio fisico, niacina a rilascio prolungato o fibrati. Nei pazienti sottoposti ad intervento veniva sempre effettuato un tentativo di rivascolarizzazione completa. Solo pochissimi pazienti hanno ricevuto uno stent medicato in quanto questa procedura è stata approvata negli ultimi sei mesi dello studio. L’outcome primario è stato definito come la mortalità per tutte le cause o l’infarto miocardico non fatale. E’ stato previsto anche un outcome secondario che include, oltre al decesso e all’infarto non fatale, lo stroke ed il ricovero per angina instabile. L’analisi dei dati è stata effettuata secondo il principio dell’intenzione a trattare.

 

Risultati
Tra il 1999 e il 2004 presso 50 centri cardiologici statunitensi e canadesi, partendo da una popolazione di 32486 pazienti eleggibili, sono stati arruolati 2287 soggetti (85% di sesso maschile) dei quali 1149 sono stati assegnati al braccio di intervento e quindi sottoposti anche ad interventistica coronarica, 1138 sono stati assegnati al braccio di controllo e quindi sottoposti solo a terapia medica. L’intervento farmacologico e sugli stili di vita è stato ugualmente efficace in entrambi i gruppi consentendo di raggiungere gli obiettivi di trattamento in una percentuale elevata di soggetti, senza però riuscire ad incidere significativamente sull’indice di massa corporea..

 

 

Dopo un follow-up mediano di 4,6 anni si sono registrati 211 eventi (morte o infarto non fatale) nel gruppo di intervento e 202 nel gruppo di controllo. Il tasso cumulativo di eventi a 4.6 anni è stato del 19.0% nel gruppo di intervento e del 18.5% nel gruppo di controllo (hazard ratio 1.05, IC 0.87-1.27). Altri risultati relativi agli outcome secondari sono elencati nella seguente tabella:

 

 

In particolare, una significativa differenza tra i due gruppi è stata riscontrata nel ricorso ad interventi di rivascolarizzazione, significativamente più frequente nel gruppo di controllo, giustificato dalla mancata risposta dei sintomi alla terapia o per il riscontro di un peggioramento dell’ischemia. Infine, nel gruppo di intervento un numero significativamente maggiore di soggetti, rispetto al gruppo di controllo, è risultato libero da sintomatologia anginosa per la maggior parte del follow-up. Tale differenza è risultata molto minore e non statisticamente significativa al controllo effettuato a 5 anni.

 

Conclusioni
Gli autori concludono che nei pazienti con coronaropatia stabile, l’esecuzione di una procedura interventistica coronarica, come approccio iniziale al trattamento ed in aggiunta alla terapia medica ottimizzata, sebbene riduca la prevalenza di angina, non modifica la mortalità ed il rischio di infarto miocardico o di altri eventi cardiovascolari maggiori. Pertanto, nei pazienti con coronaropatia stabile, l’intervento di rivascolarizzazione può essere differito anche in presenza di coronaropatia multivasale o di ischemia inducibile, a condizioni che venga instaurata e mantenuta una terapia medica ottimizzata.

 

Rilevanza per la Medicina Generale
L’impostazione della terapia della cardiopatia ischemica è generalmente demandata alla competenza dello specialista cardiologo. Ciò nonostante, i pazienti, soprattutto in condizioni di stabilità clinica, spesso si rivolgono al proprio medico di famiglia per un consiglio o un approfondimento delle valutazioni effettuate dallo specialista. I risultati di questo lavoro forniscono utili elementi per discutere con il paziente le potenzialità e i limiti dell’approccio interventistico che si conferma una opzione secondaria in fase di impostazione terapeutica iniziale. In secondo luogo, lo studio conferma l’importanza di un approccio farmacologico e non farmacologico intensivo che richiede necessariamente un costante supporto del Medico di Medicina Generale a sostegno della compliance del paziente e del raggiungimento e mantenimento di severi target terapeutici. Il conseguimento di tali obiettivi è fondamentale perché la terapia produca i benefici attesi per cui è indispensabile che il Medico di Medicina Generale si attivi, indipendentemente dall’intervento degli specialisti, nel proporre efficaci strategie comportamentali e nel prescrivere i farmaci più efficaci e le associazioni più razionali di cui oggi disponiamo.

 

Limiti dello studio
Il campione di pazienti esaminati è caratterizzato da una prevalenza assoluta di soggetti di sesso maschile ed è il risultato di una selezione molto severa che ha portato ad arruolare poco più di 2000 pazienti degli oltre 30000 potenzialmente eleggibili. Solo una esigua minoranza dei pazienti del braccio di intervento ha ricevuto uno stent medicato. Gli autori affermano che questo dato non compromette la attualità e la validità esterna dei risultati dello studio perché vi è evidenza del fatto che l’impianto di stent medicati non comporta un vantaggio, rispetto agli stent tradizionali, in termini di mortalità o incidenza di infarto. Infine è possibile che l’aver effettuato la randomizzazione dopo aver acquisito l’esito della coronarografia possa aver determinato l’esclusione di pazienti a più alto rischio che avrebbero potuto trarre maggiore beneficio dall’intervento di rivascolarizzazione. Nell’ottica specifica della Medicina Generale bisogna poi rilevare che il grado di controllo dei valori pressori e dei parametri metabolici per la prevenzione secondaria ottenuti nello studio sono molto più difficilmente raggiungibili e sostenibili nelle variegate condizioni operative della pratica clinica quotidiana.

 

Conclusioni del revisore
Questa ricerca, nel confermare osservazioni già emerse in letteratura, contribuisce in modo determinante ad invertire la tendenza, di gran lunga più marcata negli Stati Uniti rispetto alla realtà italiana, all’utilizzo delle metodiche di interventistica coronarica nella impostazione iniziale del trattamento della cardiopatia ischemica stabile. Bisogna però ribadire che l’indicazione a differire l’interventistica coronarica, anche nei pazienti con coronaropatia severa, si applica esclusivamente ai soggetti con sintomatologia stabile e a rischio non elevato. Viceversa, nei pazienti a più alto rischio e, soprattutto, nei soggetti con malattia coronarica acuta, gli interventi di rivascolarizzazione miocardica rappresentano una opzione terapeutica fondamentale in grado di modificare significativamente la prognosi. Inoltre, lo studio conferma il dato che la rivascolarizzazione miocardica, anche nelle condizioni in cui non è in grado di modificare la prognosi, conserva la sua validità nel controllo dei sintomi anginosi e di questo effetto si dovrà necessariamente tener conto nel discutere con il paziente le varie opzioni terapeutiche. Questi risultati sono almeno in parte interpretabili, come suggeriscono gli stessi autori, considerando il diverso substrato anatomico e fisiopatogico della angina stabile e della sindrome coronarica acuta. Nel primo caso i sintomi sono determinati da placche stabili, dotati di spesso cappuccio fibroso che tendono ad avere uno sviluppo concentrico e a restringere il lume del vaso. Queste placche sono facilmente individuate dalla coronarografia e modificate dalla interventistica coronarica. Le sindromi acute, invece, sono causate dalla rottura e dalla trombizzazione di placche instabili, che tendono a svilupparsi eccentricamente non determinando generalmente significativi restringimenti del lume. Queste placche non vengono trattate con l’interventistica coronarica ma possono essere rese meno instabili mediante una terapia medica aggressiva che, per questo, resta il pilastro fondamentale del trattamento della malattia aterosclerotica.

 

Informazioni sull'autore
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Ultimo aggiornamento di questa pagina: 20-ago-07
Articolo originariamente inserito il: 02-mag-07
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