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GEN
2013
Area Dolore – Cure Palliative

[Numero 2 - Articolo 1. Maggio 2006] L’impiego degli oppiacei nel dolore persistente non oncologico: una prospettiva biopsicosociale


Titolo originale: Using Opioids With Persisting Noncancer Pain: A Biopsychosocial Perspective
Autori: M.K. Nicholas, A.R. Molloy, C. Brooker (Gli Autori operano nel Centro di Cura e Ricerca sul Dolore dell’Università di Sydney)
Rivista e Riferimenti di pubblicazione: Clin J Pain 22:137–146, 2006
Recensione a cura di: A.K. Rieve
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SINTESI DELLO STUDIO

 

Razionale
Gli Autori propongono una revisione critica di alcuni trials clinici pubblicati negli ultimi due decenni in tema di controllo del dolore non oncologico con farmaci oppiacei, comparando cinque linee guida internazionali sull’argomento. La revisione sistematica della letteratura sembra rilevare che, almeno in un certo numero di casi, gli oppiacei siano prescritti alle “persone sbagliate”, oppure alle persone giuste nel “momento sbagliato”, senza peraltro suggerire come risolvere operativamente la questione. L’intento degli Autori è pertanto quello di proporre criteri operativi che consentano di valutare quando e come gli oppiacei potrebbero essere impiegati con appropriatezza nei pazienti con dolore cronico non oncologico.

 

Revisione degli studi clinici
Nonostante le controversie sull’impiego degli oppiacei nel dolore cronico di natura non oncologica vi sono dati in Australia che ne documentano un loro uso crescente. In una revisione dei registri del Dipartimento di Stato per la Salute australiano si rimarca che “gli oppiacei vengono prescritti in pazienti con problemi sociali, elevati livelli di disagio psichico e diagnosi mediche poco chiare”. Le prescrizioni di oppiacei per il dolore muscolo-scheletrico sono raddoppiate negli USA (dal 8 al 16%) nel ventennio 1980-2000 e ciò sembra dovuto non ad un maggior numero di consultazioni per il problema dolore, bensì ad un cambiamento di abitudini prescrittive da parte dei medici. Tale atteggiamento è ritenuto da più parti motivo di preoccupazione. Emergono alcuni aspetti significativi nella controversia che anima la terapia con oppiacei per il controllo del dolore cronico non oncologico.

 

 

  • I dati concordano nel ritenere che dipendenza e depressione respiratoria siano problemi poco frequenti. Tuttavia uno studio su 152 pazienti in terapia di mantenimento con metadone ha rivelato che il 44% dei soggetti riteneva che il metadone prescritto loro per il dolore cronico li avesse portati alla tossicodipendenza, inoltre le segnalazioni di abuso di oppiacei regolarmente prescritti appaiono essere in aumento
  • Persiste un certo grado di preoccupazione per le reazioni avverse e per gli effetti collaterali di tali farmaci, quali nausea, stipsi e sedazione. In alcuni trials clinici con oppiacei sono riportate percentuali di abbandono dello studio nell’ordine del 30-57% a causa di effetti collaterali.
  • Vi sono a tutt’oggi dati contrastanti che lasciano aperte alcune questioni riguardanti gli effetti degli oppiacei sulle funzioni cognitive e sul controllo motorio, e viene da tutti riconosciuto che occorre esplicitamente raccomandare ai pazienti di porre attenzione riguardo a possibili effetti additivi di altre sostanze psicoattive (alcolici e triciclici).
  • Le prove di efficacia degli oppiacei nell’ambito del dolore non oncologico sono tuttora limitate. La maggior parte degli studi di confronto effettuati sono di breve durata (nell’ordine di poche settimane), hanno documentato solo modesti cambiamenti di rating del dolore (generalmente di 2 punti in scale a 10 punti) e l’efficacia terapeutica sugli aspetti funzionali e psicosociali è stata incostante o non documentata affatto.

 

Le linee guida
Benché l’impiego degli oppiacei nel trattamento del dolore non oncologico sia ampiamente sostenuto nel mondo scientifico, persistenti riserve su un loro uso appropriato hanno indotto la formulazione di linee-guida. L’utilità di queste linee-guida rimane da determinare, e alcuni dati suggerirebbero che esse non siano particolarmente efficaci nel modificare i comportamenti prescrittivi dei medici. La maggior parte delle linee-guida per l’uso di oppiacei nel dolore cronico non oncologico pubblicate in anni recenti in diversi Paesi sottolineano che tali farmaci dovrebbero essere proposti solo dopo il fallimento di altre modalità terapeutiche. Ad eccezione delle linee-guida britanniche (definite “Raccomandazioni”), che si pongono come obbiettivo primario il sollievo dal dolore, mentre secondario è il guadagno funzionale, vi è accordo generale sull’aspettativa che l’efficacia degli oppiacei venga valutata sia in termini di riduzione del dolore che di recupero funzionale. Le raccomandazioni formulate nelle varie linee-guida concordano in larga misura tra loro ed offrono criteri generali per un utilizzo ponderato e regolamentato degli oppiacei. Tuttavia alcune questioni fondamentali sono tutt’ora aperte:

 

 

  • Se un requisito di eleggibilità alla terapia con oppiacei è la “stabilità psichica” del paziente, non viene espresso con chiarezza secondo quali criteri questa possa essere valutata.
  • Condizione per procedere ad un tentativo terapeutico con oppiacei è che precedenti interventi terapeutici abbiano fallito, ma non viene indicato come questo fallimento possa essere accertato o definito, e soprattutto sembra ignorata la questione del perché tali trattamenti antecedenti abbiano fallito.
  • Se l’obiettivo è un miglioramento funzionale globale delle condizioni del paziente i precedenti tentativi dovevano includere anche interventi di tipo psicologico e comportamentale. Ci si chiede come possa il medico prescrittore sperare di ottenere un miglioramento funzionale ponendo indicazione a terapia con oppiacei, se si presume che precedenti tentativi di recupero funzionale siano stati intrapresi e siano falliti. E’ anche discutibile la disponibilità del paziente ad accettare un intervento di tipo psicologico.
  • Viene generalmente sottolineata l’esigenza di una chiara diagnosi clinica. E’ ammessa la possibilità che non in tutti i casi sia possibile definire la diagnosi di causa del dolore, ma ciò crea un conflitto con la regola delle linee guida che prevede l’esclusione dal trattamento con oppiacei a pazienti ritenuti portatore di un “dolore idiopatico”.

La prospettiva biopsicosociale

Nell’arco degli ultimi trent’anni sono stati raccolti dati a favore di un modello di cura multidimensionale, biopsicosociale del dolore. Ciò che caratterizza questo modello è il considerare la gravità del dolore non solo legato alla sua “qualità” (intesa come intensità, tipo, localizzazione, impatto sulla Qualità di vita), ma anche come il risultato dell’interazione fra un input somatico (nocicettivo o neuropatico), le contingenze ambientali dominanti, le percezioni del soggetto (a loro volta condizionate dagli ideali o dal credo religioso e dal tono del suo umore) e dalla riposta del soggetto, che mette in campo le sue risorse per organizzare strategie opportune a fronteggiare la situazione (coping). Revisioni sistematiche recenti concludono che i fattori psicosociali contribuiscono in modo significativo non solo alla transizione dal dolore acuto al dolore cronico, ma anche a mantenere una parte sostanziale del disagio e della disabilità associati al dolore cronico. Si ritiene generalmente che la ridotta attività che si associa al dolore cronico sia in relazione con lo sviluppo di disabilità in pazienti con dolore persistente, mentre, al contrario, se il paziente con dolore cronico viene incoraggiato ad affrontare la propria paura mantenendosi attivo nonostante il dolore, il grado di disabilità potrebbe essere significativamente ridotto. Inoltre vi sono prove che i fattori psicologici implicati nell’esperienza del dolore cronico possano interessare processi psichici normali, quali l’apprendimento e l’attenzione. Queste osservazioni sono di particolare rilevanza poiché alcuni studi sulla prescrizione di oppiacei documentano come essa faccia seguito per lo più a certi comportamenti del paziente associati al dolore piuttosto che alla intensità ed alla obiettività della sindrome algica, suggerendo che ciò potrebbe rappresentare una fonte di rinforzo di tali comportamenti. Il paradigma di molte linee-guida (alleviare come prima cosa il dolore nell’aspettativa che convinzioni sul dolore e risposte di evitamento possano essere affrontate successivamente) potrebbe portare pertanto ad un involontario rinforzo o al mantenimento della paura del dolore e in definitiva ad un grado eccessivo di disabilità, uno dei principali problemi da contrastare secondo le linee-guida stesse.
La stessa relazione medico-paziente può diventare un potente fattore psicosociale condizionante, per cui gli interventi per il dolore cronico dovrebbero essere non solo multimodali, ma anche rivolti al maggior numero di fattori implicati “nell’esperienza del dolore”.

Un approccio alternativo
Gli Autori suggeriscono una modalità di approccio pragmatico al dolore cronico che, pur nel rispetto delle linee-guida come riferimento generale, consideri il problema secondo un paradigma innovativo. Invece di offrire farmaci oppiacei tout–court in alternativa a trattamenti farmacologici inefficaci essi vanno proposti a quei pazienti che hanno già messo in atto con un certo successo strategie di autogestione e che sono interessati ad un tentativo terapeutico per ridurre la gravità del loro dolore. In particolare a quei pazienti che:


  • mantengano “alcune” (per opposto a “poche”) attività normali, nonostante la presenza di dolore, impiegando strategie quali pianificazione, definizione di obiettivi, problem-solving, adeguamento delle attività;
  • non mettano in atto regolarmente manovre di fuga o comportamenti volti ad evitare il dolore (eccessivo riposo, elevato uso di ausili, analgesici, alcool, droghe)
  • diano segnali di essere orientati verso il minimizzare le modalità di pensiero “allarmiste”: per esempio mettendo in discussione convinzioni e percezioni negative. Per valutare questo stato potrebbero essere impiegate scale di auto-valutazione
  • utilizzino tecniche di rilassamento non farmacologiche (rilassamento, meditazione, tai chi, yoga, distrazione) e siano in grado di utilizzare risorse proprie o esterne per porre in atto strategie nel complesso definite con il termine coping (coping = In una situazione di difficoltà mettere in atto strategie che permettano di affrontare tale situazione o modificandola o imparando a convivere con essa)

La terapia con oppiacei può essere vista in questi casi come un complemento ad un approccio di autogestione piuttosto che un trattamento primario. Il paziente a questo punto deciderà, dopo adeguata informazione, di intraprendere la terapia (consenso informato) e sarà il paziente stesso a valutare costi/benefici dello specifico farmaco in termini di effetti collaterali e riduzione del dolore. La selezione dei pazienti non è quindi effettuata solo in base al rischio di abuso di oppiacei, ma anche con criteri che permettano di capire perché quel paziente ha difficoltà nel gestire il proprio dolore cronico e con lo sforzo di valutare quali provvedimenti terapeutici potrebbero essere presi in considerazione. La sola condizione di soggetto non a rischio d’abuso lascia il medico incerto sul da farsi. Per contro proporre a pazienti che utilizzano di per sé strategie di autogestione del dolore cronico mette il medico in condizioni favorevoli per rinforzare il comportamento positivo, focalizzando il suo obiettivo sulle attività funzionali del malato piuttosto che sull’esperienza del dolore. Il paziente non dovrebbe aspettarsi tutte le risposte dal medico, e il medico non dovrebbe vedersi come colui che detiene tutte le risposte. Si chiede al Medico di “trattare il paziente da esperto”. In questa modalità di approccio gli oppiacei verrebbero considerati come uno fra i vari strumenti in un piano di gestione del dolore che è sotto il controllo del paziente stesso, riducendo così la sensazione soggettiva di dipendere dal farmaco. Questo approccio implica maggiore attenzione ed una maggiore disponibilità di tempo da parte del medico, che deve anche considerare i suoi limiti e ciò che va oltre alle sue competenze e valutare quindi se inviare il malato a consulenza ad un servizio multidisciplinare di terapia del dolore. Gli Autori sono consapevoli che, secondo questo paradigma, alcuni possono obiettare che molti più malati vengono ad essere esclusi dalla terapia con farmaci oppiacei in mancanza peraltro di opzioni terapeutiche per esempio in contesti di risorse limitate . Questo tuttavia non dovrebbe autorizzare il medico di cure primarie a prescrivere terapie di non comprovata efficacia o addirittura controproducenti, anzi ciò dovrebbe rappresentare uno stimolo per applicare il paradigma biopsico – sociale anche se questo esige una specifica formazione aggiuntiva sulla applicazione dei fondamenti dell’approccio cognitivo-comportamentale per il controllo del dolore.

RILEVANZA PER LA MEDICINA GENERALE

Il Medico di Famiglia Italiano, riguardo all’utilizzo di farmaci oppiacei per il dolore non oncologico, vive attualmente una situazione di incertezza. Essa è determinata da un lato da una sempre maggiore richiesta di cure per il dolore cronico da parte dei pazienti e dai Media e, spesso, è sollecitato da parte delle Aziende del farmaco. Dall’altro lato mancano completamente riferimenti a livello nazionale (Linee guida) ed ancora oggi gli oppioidi scontano ancestrali resistenze di natura etica ed ideologica verso il loro sereno utilizzo. Questo articolo rappresenta in primo luogo una revisione ampia, aggiornata e riccamente corredata di riferimenti bibliografici della letteratura sull’approccio terapeutico al dolore cronico non oncologico. Ha inoltre il pregio di esaminare i principali aspetti che contraddistinguono le linee-guida scaturite dagli studi clinici, e di rimarcarne elementi comuni, punti di forza e di incertezza. Per il medico di famiglia italiano, che ha in genere una relativamente scarsa dimestichezza con le linee-guida in questo ambito, rappresenta una occasione di riflessione critica sull’approccio al dolore cronico, con il quale si confronta quotidianamente e spesso con dubbi e perplessità. L’aspetto di maggiore rilevanza per la medicina primaria è quello di suggerire una visione più complessa del problema clinico del dolore cronico. Attribuendo significato al contesto in cui esso si genera e soprattutto focalizzando l’obiettivo dell’intervento che è quello di ridurre la disabiiltà che vi è connessa. Il nuovo paradigma di approccio che viene proposto nell’articolo mette in risalto la centralità della relazione medico-paziente e la negoziazione del percorso di cura diventa una vera e propria risorsa terapeutica per il paziente. Certamente il percorso di cura si fa molto più impegnativo, ma può rappresentare nello stesso tempo il contributo originale del Medico di Famiglia rispetto alla stereotipata risposta specialistica cui il paziente è abituato.

COMMENTO DEL REVISORE
Riconsiderare il significato del dolore non tanto in quanto sintomo da contrastare tout court, ma piuttosto come elemento di una disfunzione complessa che deve essere compresa ed affrontata in tutte le sue dimensioni, può rappresentare un modo per uscire dal dilemma: prescrivo o non prescrivo un oppiaceo. Se leggendo questo articolo i Medici di Medicina Generale esprimeranno il loro parere (attraverso per esempio al forum di questo portale web) potrebbe essere interessante, raccogliendo le diverse esperienze ed opinioni, progettare eventi formativi ad hoc.

 

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Ultimo aggiornamento di questa pagina: 20-ago-07
Articolo originariamente inserito il: 20-mag-06
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