Area Cardiovascolare [Numero 42 - Articolo 1. Febbraio 2010] Concentrazione di proteina C reattiva e rischio di malattia coronarica, ictus e mortalità: una metanalisi su risultati individuali | ![]() |
La proteina C reattiva (PCR), una proteina plasmatica sintetizzata dal fegato, è un marcatore sistemico di infiammazione sensibile e dinamico. La sua concentrazione circolatoria può aumentare fino a 10.000 volte durante al risposta acuta a un’infezione grave, o a esteso danno tissutale. A parte questi picchi, le variazioni di anno in anno della concentrazione di PCR in una persona sono simili a quelle di colesterolo totale e di pressione sistolica. La stabilità di questa proteina al congelamento a lungo termine, e la disponibilità di dosaggi standardizzati, hanno facilitato gli studi sulla PCR. Oltre alla valutazione se la misurazione della PCR è utile nella valutazione del rischio vascolare, sono necessari studi per scoprire se la PCR è un mediatore di malattia vascolare. Infatti, si lega alle LDL ed è presente nella placca aterosclerotica, per cui ne è stato proposto un ruolo causale nella malattia coronarica. Una metanalisi di 22 studi prospettici ha mostrato un rischio relativo di malattia coronarica di 1,6 nei soggetti con valori elevati (in media 2,4) rispetto a quelli con i valori inferiori di PCR, in media 1. sono quindi necessarie informazioni sull’associazione dei valori di PCR con le patologie, indipendentemente dai fattori di rischio convenzionali. Studi precedenti non hanno potenza sufficiente per indagare l’associazione con diversi tipi di ictus, o per valutare se la concentrazione è associata esclusivamente con le malattie vascolari, o anche con altre malattie non vascolari. Il profilo dell’associazione dose-risposta non è stato ben caratterizzato, e sono necessarie analisi con sufficiente potenza per scoprire se varia con l’età, il sesso, o altri sottogruppi clinicamente rilevanti. Gli autori hanno quindi valutato indipendenza, specificità, grandezza e profilo delle associazioni della concentrazione di PCR con malattie vascolari e non vascolari, in circostanze diverse. I ricercatori di 116 studi prospettici sui fattori di rischio cardiovascolari, con 1.200.000 partecipanti, hanno condiviso i dati di ogni soggetto studiato. In questi studi, i partecipanti non erano stati arruolati per la presenza di malattia cardiovascolare pregressa; la morbidità vascolare e la mortalità per cause specifiche erano registrate secondo criteri predefiniti; il periodo di osservazione era di almeno 1 anno. Le analisi erano ristrette ai soggetti senza malattia cardiovascolare pregressa. In 54 studi erano disponibili informazioni sui valori di PCR, età, sesso e altri fattori di rischio convenzionali, per un totale di 160.309 soggetti on 27.769 primi episodi vascolari fatali o non fatali, o di altre malattie non vascolari. Per 109.742 partecipanti, da 37 studi, erano disponibili informazioni complete sui valori di PCR, età, sesso, pressione sistolica, abitudine al fumo, storia di diabete (spesso non distinto tra tipo 1 o 2), BMI, valori di trigliceridi e colesterolo totale. Per le malattie non vascolari, non erano disponibili i valori di base. La determinazione della PCR ad alta sensibilità era usata in 52 dei 54 studi; in 43 studi standardizzata. Almeno le prime tre cifre della classifica ICD erano usate per registrare le malattie fatali, con conferma della diagnosi del certificato di morte mediante indagini supplementari (esame delle cartelle cliniche, risultati di autopsie) in 41 dei 54 studi. Obbiettivo primario dello studio era la malattia coronarica (primo episodio di infarto miocardico, o malattia coronarica fatale), con analisi secondarie per ictus, morte per cause vascolari, morte per tutte le altre cause.
Risultati
L’età media all’inizio dello studi era di 60 anni, il 48% dei partecipanti erano di sesso femminile. Per 1.310.000 anni-persona a rischio, si sono verificati 10.451 eventi coronarici (7.381 infarti miocardici non fatali e 3.070 morti per malattie coronariche), 2.846 ictus ischemici, 469 ictus emorragici, 1.180 ictus non classificati, e 1.659 morti per altre malattie vascolari, 10.236 per malattie non vascolari e 860 per cause sconosciute. Le concentrazioni medie di PCR erano diverse nei diversi studi, ma le deviazioni standard erano simili, con incremento con l’età, e valore basale medio di 1,72.
I valori di PCR mostravano associazione diretta con quelli del colesterolo totale e LDL, trigliceridi, fibrinogeno, interleuchina 6, pressione sistolica, BMI e conteggio dei leucociti, e inversa con i valori di colesterolo HDL e albumina.
I valori di PCR erano superiori nelle donne rispetto agli uomini, nei fumatori rispetto ai non fumatori, nei diabetici rispetto ai non diabetici, e inferiori nei soggetti che assumevano alcol rispetto agli astemi, e nei soggetti attivi rispetto ai sedentari. La disponibilità di più misurazioni in 22.124 soggetti consentiva di correlare l’incremento del valore di PCR con l’età, simile all’incremento, di anno in anno, di pressione sistolica, colesterolo totale e HDL, e fibrinogeno nella stessa persona. Nelle analisi aggiustate solo per età e sesso, l’associazione dei valori di PCR con il rischio di malattia coronarica e ictus ischemico era pressoché lineare, senza evidenti valori soglia. Il rischio relativo per le malattie coronariche era di 1,68. Per tutti i tipi di ictus, il rischio relativo era 1,39 (1,46 per l’ictus ischemico, 1,07 per quello emorragico, e 1,41 per quello non classificato). I valori di PCR erano associati anche al rischio di condizioni diverse, come i tumori, le malattie respiratorie, endocrine e metaboliche, e anche con la morte per cause esterne (violenza, traumi, suicidi), ma non con le malattie del sistema nervoso. Analisi successive, che consideravano ulteriori fattori di rischio, mostravano riduzione del rischio relativo dopo aggiustamento per età, sesso, pressione sistolica, abitudine al fumo, diabete, BMI, valori di trigliceridi e colesterolo totale. Ulteriori aggiustamenti per i valori di colesterolo non-HDL e HDL e consumo di alcol, portavano il rischio relativo per malattia coronarica a 1,37 per i valori di PCR, di 1,28 per il colesterolo non-HDL e di 1,35 per la pressione sistolica. Il rischio relativo per la PCR era 1,55 per la mortalità vascolare, e 1,54 per la mortalità non vascolare, dopo aggiustamento per i fattori di rischio convenzionali. Dopo aggiustamento per i valori di fibrinogeno, il rischio relativo di malattia coronarica associato ai valori di PCR, aggiustato per i fattori di rischio convenzionali, era ridotto da 1,36 a 1,23; il rischio relativo per ictus ischemico non variava, mentre quello per morte da cause non vascolari era pure ridotto, da 1,52 a 1,34. Sostituendo il fibrinogeno con un altro marcatore di infiammazione (il conteggio dei leucociti), la riduzione del rischio relativo era leggermente inferiore (ma basata su meno dati).
Implicazioni per la Medicina Generale
La proteina C reattiva è un marker infiammatorio, che aumenta esponenzialmente in presenza di gravi infezioni, o esteso danno tissutale. In condizioni basali, i valori aumentano con l’età; inoltre, aumentano proporzionalmente all’incremento nel tempo di colesterolo totale e pressione sistolica. Questo studio conferma la correlazione diretta con fattori di rischio cardiovascolari come i valori di colesterolo totale, BMI, trigliceridi, e inversa con fattori protettivi come il colesterolo HDL. I soggetti con valori elevati di proteina C reattiva hanno mostrato probabilità di malattie coronariche aumentata del 63% (ridotta a 23% dopo aggiustamento per i fattori di rischio convenzionali, e per i valori di fibrinogeno) rispetto ai soggetti con valori inferiori, del 44% (32%) per ictus ischemico, del 71% (34%) per mortalità da cause vascolari, e del 55% (34%) per mortalità da cause non vascolari. Le linee guida considerano la proteina C reattiva come il più promettente tra i nuovi fattori di rischio, ma al momento non ne consigliano la valutazione nel calcolo del rischio cardiovascolare, perché non è in grado di meglio definire il rischio dei soggetti con rischio intermedio (10-20% di probabilità di evento cardiovascolare a 10 anni).
Limiti dello studio
Gli autori ammettono che può esserci eterogeneità tra i diversi studi riguardo al rischio relativo per malattia coronarica. Fanno però notare che, a parte la possibilità di un rischio significativamente superiore nei maschi, il rischio relativo per malattia coronarica non era diverso in diversi sottogruppi clinicamente rilevanti (diabetici, dislipidemici, obesi, fumatori), o con caratteristiche diverse degli studi o dei partecipanti, o in analisi preliminari di soggetti con obesità patologica o valori molto elevati di lipidi. Risultati qualitativamente simili a quelli qui riportati erano osservati in analisi che non correggevano per la diluizione della regressione; aggiustavano per l’abitudine al fumo; usavano modelli a effetto fisso; escludevano i due studi in cui non era stato impiegato il dosaggio della PCR a alta sensibilità; confrontavano i grossi studi con quelli con pochi partecipanti; escludevano i 10.188 partecipanti con valori di PCR superiori a 10. La maggior parte degli eventi si sono verificati in pazienti di razza bianca, quindi i risultati non si possono necessariamente applicare anche a soggetti di etnia diversa: il lavoro conferma differenze sostanziali in gruppi diversi, con valori di PCR superiori nel 26% dei soggetti neri, e inferiori nel 16% degli asiatici.
Commento del revisore
Il dosaggio della proteina C reattiva non è attualmente consigliato dalle linee guida. Di seguito alcune indicazioni dalle pubblicazioni più recenti
ESC Guidelines. European guidelines on cardiovascular disease prevention in clinical practice: executive summary
European Heart Journal (2007) 28, 23752414
doi:10.1093/eurheartj/ehm316
Le linee guida europee sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nella pratica clinica, pubblicate il 28 agosto 2007, classificano la PCR tra i fattori di rischio emergenti, e considerano prematuro il suo dosaggio nella pratica quotidiana per predire il rischio cardiovascolare. Sono infatti necessarie ulteriori ricerche per soddisfare tutti i necessari criteri: applicabilità a tutte le patologie cardiovascolari rilevanti; capacità di predire il rischio a breve, intermedio e lungo termine; dosaggio standardizzato; esame della variabilità, grado di correlazione con i fattori di rischio già noti; miglioramento della predizione complessiva. Inoltre, i valori di PCR (così come il fibrinogeno e probabilmente altri biomarcatori) spesso possono essere confusi da altre variabili non misurabili, come ad esempio l’aumento causato da patologie in fase pre-clinica. Ad esempio, uno studio basato su numerosi casi dalla medicina generale, ha mostrato che il primo episodio di infarto e ictus segue spesso a infezioni respiratorie o urinarie recenti, con un rischio relativo nei primi tre giorni dalla diagnosi di 5 e 3,2. Un approccio alternativo, che ha valutato le variazioni genetiche di PCR, non ha dimostrato associazione dei genotipi che codificano per valori circolanti di PCR superiori, e malattia cardiovascolare o altri fattori di rischio; anche se un’ampia metanalisi sui geni di sette fattori emostatici, ha mostrato che varianti del fattore V e del gene della protrombina possono essere modicamente associate al rischio di malattia coronarica.
Using Nontraditional Risk Factors in Coronary Heart Disease Risk Assessment: U.S. Preventive Services Task Force Recommendation Statement
Ann Intern Med. 2009;151:474-482.
Questa rassegna sistematica (pubblicata il 6 ottobre 2009) conclude che le evidenze attualmente disponibili sono insufficienti per valutare il rapporto costo/beneficio dell’uso di fattori di rischio non tradizionali per prevenire eventi coronarici in uomini e donne asintomatici, senza patologia coronarica pregressa. I fattori esaminati sono la PCR ad alta sensibilità, l’indice di Windsor, il conteggio leucocitario, la glicemia a digiuno, la presenza di malattia periodontale, lo spessore intima-media carotideo, il punteggio di calcificazione coronarica, il dosaggio dell’omocisteina e della lipoproteina (a). Gli studi sulla PCR, di discreta o buona qualità, indicano che valori elevati di PCR predicono un rischio maggiore di eventi coronarici, indipendentemente dai fattori di rischio di Framingham, con un rischio relativo di 1,58 per valori di PCR superiori a 3, rispetto a valori inferiori a 1. Nessuno studio è stato indirizzato a valutare direttamente l’uso della PCR nella popolazione a rischio intermedio. Studi osservazionali, o di piccole dimensioni, mostrano che la riduzione di peso e l’attività fisica sono associati a riduzioni di PCR, ma mancano studi di intervento che dimostrino come la riduzione di PCR possa ridurre gli eventi cardiovascolari. Una dichiarazione congiunta dell’American Heart Association / CDC-P dichiara che il dosaggio ad alta sensibilità di PCR è un marcatore indipendente di rischio e, nei soggetti con rischio globale intermedio (10-20% a dieci anni), a discrezione del curante, può aiutare a indirizzare un’ulteriore valutazione e un’eventuale terapia in prevenzione primaria, ma gli effetti della terapia basata su questa strategia non sono certi. Le linee guida ATP III dichiarano che i valori di omocisteina e PCR, le misurazioni dello spessore intima-media carotideo e il punteggio di calcificazione coronarica, possono essere utili in alcune circostanze, ma non raccomandano l’uso di nessuno dei fattori di rischio emergenti nella valutazione del rischio in prevenzione primaria estesa a tutti i soggetti.
Emerging Risk Factors for Coronary Heart Disease: A Summary of Systematic Reviews Conducted for the U.S. Preventive Services Task Force
Ann Intern Med. 2009;151:496-507.
Anche questo lavoro, pubblicato sulla stesso numero degli Annals of Internal Medicine il 6 ottobre 2009, conclude che tra i nuovi fattori di rischio, la PCR è il migliore candidato per lo screening e il meglio studiato, ma le evidenze che variazioni di PCR possano portare a prevenzione primaria di eventi coronarici non sono conclusive. Gli interventi che riducono la PCR: perdita di peso, esercizio fisico, cessazione del fumo, uso di statine o fibrati, hanno un effetto già noto di riduzione del rischio di eventi coronarici. L’utilizzo dei valori di PCR per perfezionare il profilo di rischio nei soggetti a rischio intermedio ha risultati pratici scarsi, ad esempio solo nel 5% delle donne a rischio intermedio arruolate nel Womens’ Heatlth Study, con valori di PCR superiori a 3; altri studi non sono stati in grado di calcolare il numero dei soggetti riclassificati, pur identificando chiaramente sottogruppi di soggetti ad alto rischio, con PCR elevata, tra quelli con rischio di Framingham tra 15 e 20%. Non è chiaro se utilizzare i valori di PCR per guidare gli obbiettivi terapeutici sia più efficace, rispetto a intensificare gli obbiettivi terapeutici nei soggetti a rischio intermedio.